E-commerce in salute, ma l'UE è in agguato
Scritto da Dott. Tomaso Trevisson
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Il commercio attraverso le vie digitali del Web gode di ottima salute ed in Italia nel 2010 ha generato un giro d'affari pari a 14.3 miliardi di euro, con un incremento di circa il 43% rispetto all'anno precedente.
Ad effettuare questa radiografia, scoprendo che l'e-commerce respira benissimo a pieni polmoni è l'indagine: E-commerce in Italia 2011 - "I clienti dell'e-commerce", condotta dalla Casaleggio Associati.
Secondo la ricerca, circa il 48% dello shopping avviene per il tempo libero, una categoria nella quale sono state inglobate le scommesse ed i giochi d'azzardo, ma di cui fanno parte anche i giocattoli, gli articoli sportivi, la telefonia e la partecipazione agli eventi. Circa il 31% del mercato elettronico italiano è poi assorbito dal turismo, a cui segue l'elettronica di consumo con il 7.1% del fatturato annuo.
A dare una forte svolta positiva sarebbero stati anche l'ingresso in Italia di gruppi come Amazon, riconosciuti internazionalmente per la propria organizzazione commerciale elettronica, e di piattaforme per gli acquisti scontati come Groupon.
Le previsioni mostrano un 2011 in crescita di un ultriore 30%, con l'editoria che potrebbe abbandonare l'attuale 1.9%, acquisendo circa 35 punti percentuali in più.
Queste rosee aspettative potrebbero realizzarsi ed il condizionale è d'obbligo, se si considerano le vicende che coinvolgono l'UE e le tensioni che l'ecommerce vive in questi giorni a causa dei Consumer Rights su cui l'Unione Europea sta attualmente discutendo.
La direttiva, che è già stata approvata dalla Commissione mercato interno del Parlamento Europeo (Imco) e che intende conformare i diritti dei consumatori con regole comuni in tutta UE, in realtà rischia di bloccare l'e-commerce, imponendo rigidità difficilmente superabili ed aggravi per gli operatori valutabili intorno ai 10 miliardi di euro.
A sostenerlo sono le associazioni ed i consorzi europei per il commercio elettronico come Netcomm che contestano fermamente gli articoli 22a, 12, 16 e 17 della direttiva.
Nello specifico l'articolo 22a impone ai siti di e-shopping la consegna obbligatoria in tutti i territori dell'UE: questo significa che già allo startup di qualsiasi iniziativa di commercio elettronico, il portale deve prevedere 7 valute differenti, la traduzione in 25 differenti lingue e contratti di spedizione in ben 27 Paesi.
In questo modo si frena la libera iniziativa e si impedisce al singolo operatore di decidere il modello di business più appropriato ed il mercato alla quale proporsi.
Gli altri articoli citati riguardano il diritto di recesso, che può essere esercitato dall'acquirente entro 28 giorni dall'acquisto, di cui i primi 14 servono a notificare all'esercente la volontà di recesso e gli altri 14 a restituire il bene. Si va così a quadruplicare i canonici 7/10 giorni.
Inoltre, i tempi di rimborso da parte dei venditori passerebbero dai 30 giorni ai 14 giorni: in questo modo, si rischia di dover rimborsare il bene prima di riceverlo, eludendo così la possibilità da parte del vendor di verificarne le condizioni di integrità e di non utilizzo. Per ordini superiori ai 40€, i vendor dovrebbero poi rimborsare anch le spese di rispedizione, con una perdita di circa 10€, che comunque spingerebbe i consumatori ad acquistare più di quanto necessitano, con la sicurezza di poterlo fare senza oneri a carico.
Con queste condizioni che dovrebbero diventare effettive in due mesi si rischia davvero di ridurre i margini di operatività dei merchant ai quali non resterebbe che innalzare i prezzi, frenando la crescita di un business per ora assolutamente positivo.
Giovanni Barbieri